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Origini del Surf: Dove e Come è Nata l’Arte di Cavalcare le Onde

Riassunto Articolo

Oggi il surf è ovunque. Lo si vede nei film, nelle pubblicità, alle Olimpiadi. È un simbolo globale di libertà, avventura e gioventù. Ma da dove arriva davvero quest’arte di danzare sull’acqua? La sua storia è molto più antica e profonda di quanto si possa immaginare e non è nata sulle spiagge della California. Le sue vere radici affondano nel cuore blu dell’Oceano Pacifico, tra le antiche popolazioni della Polinesia. Fu in particolare nell’arcipelago delle Hawaii che questa pratica si trasformò in qualcosa di unico, un pilastro della cultura e della spiritualità locale. Capire come è nato il surf significa capire il legame quasi mistico che univa gli hawaiani all’oceano. E significa anche capire che l’atto di surfare alle Hawaii oggi non è solo uno sport, ma l’eco di una tradizione millenaria che ha rischiato di scomparire per sempre.

statue-4837195_1280Le radici polinesiane e l’arte hawaiana dell’he’e nalu

La prima cosa da sapere è che il surf, o qualcosa di molto simile, non è nato in un solo posto. Forme di wave riding erano praticate in diverse isole della Polinesia, da Tahiti alla Nuova Zelanda. Ma in nessun altro luogo ha mai raggiunto l’importanza che aveva nelle Hawaii. Qui era conosciuto come heʻe nalu, che significa “scivolare sulle onde”, ed era molto più di un semplice divertimento. Era una parte fondamentale della vita. Lo praticavano tutti: uomini, donne, bambini, persone comuni e capi tribù. Anzi, le onde erano uno dei rari contesti in cui le rigide gerarchie sociali potevano allentarsi un po’. Ma l’aspetto più profondo era quello spirituale. Il mare era visto come un luogo sacro, carico di un’energia potente chiamata mana. Il surfista, scivolando sull’onda, non stava solo compiendo un gesto atletico, ma stava entrando in comunione con questa forza primordiale. Per questo c’erano rituali precisi: si recitavano canti, o mele, per chiamare le onde giuste, e i sacerdoti, i kahuna, benedicevano le nuove tavole per assicurarsi che fossero in armonia con l’oceano.

Le tavole da surf: status symbol e artigianato

Una tavola da surf non era solo un pezzo di legno; era uno specchio della società hawaiana, un simbolo visibile dello status di chi la cavalcava. Le tavole più imponenti e prestigiose erano le olo, riservate esclusivamente ai reali. Erano tavole enormi, lunghe anche più di sette metri, ma sorprendentemente leggere perché costruite con il legno raro dell’albero di wiliwili. Dominare un’olo sulle onde era una dimostrazione di abilità e di potere, un modo per affermare il proprio diritto divino a governare. Le persone comuni usavano invece le tavole alaia. Erano molto più corte, tra i due e i quattro metri, e fatte con legni più pesanti e comuni come il koa o l’albero del pane. Non avevano pinne, il che le rendeva incredibilmente difficili da manovrare e richiedeva una tecnica e una sensibilità fuori dal comune. Infine, c’erano le piccole paipo, simili ai moderni bodyboard, con cui tutti, soprattutto i bambini, imparavano a prendere confidenza con le onde stando sdraiati.

Il quasi oblio: l’impatto del contatto con l’occidente

Poi, tutto cambiò. L’arrivo degli esploratori europei e dei missionari americani a partire dalla fine del Settecento fu un colpo durissimo per la cultura hawaiana, e il surf fu una delle prime tradizioni a farne le spese. I missionari calvinisti, sbarcati dal New England nel 1820, vedevano questa pratica con orrore. Ai loro occhi era l’incarnazione del peccato: una perdita di tempo che distoglieva dal lavoro, promuoveva la nudità e il gioco d’azzardo, dato che si scommetteva spesso sui surfisti migliori. Questa pratica venne vista molto male e fortemente scoraggiata. A questa pressione culturale si aggiunse una vera e propria catastrofe sanitaria. Gli stranieri portarono con sé malattie come il vaiolo e il morbillo, contro cui i nativi non avevano alcuna difesa immunitaria. La popolazione hawaiana fu decimata, crollando di quasi il 90% in un secolo. Con una comunità così indebolita e costretta ad abbandonare le proprie usanze, il surf scivolò lentamente nell’oblio.

La rinascita: duke kahanamoku e i beach boys di Waikīkī

Quando il surf sembrava destinato a scomparire per sempre, un uomo lo riportò letteralmente in vita: Duke Kahanamoku. Nato a Honolulu nel 1890, Duke era un atleta eccezionale: la sua medaglia d’oro alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 lo rese una star mondiale. Duke capì di avere un’opportunità unica e usò la sua fama per diventare l’ambasciatore dello sport dei suoi antenati. Nei suoi viaggi in giro per il mondo per le gare di nuoto, portava sempre con sé la sua pesante tavola di legno e organizzava dimostrazioni che lasciavano il pubblico a bocca aperta. La più leggendaria fu quella del 1914 a Sydney, in Australia, dove la sua esibizione sulla spiaggia di Freshwater diede di fatto il via alla cultura del surf australiana. Ma Duke non era solo. A Waikīkī, un gruppo di nativi hawaiani, conosciuti come i “beach boys“, mantenne viva la fiamma. Passavano le loro giornate sulla spiaggia, insegnando ai primi turisti americani a stare in piedi su una tavola sulle onde dolci della baia.

Da waikīkī al mondo: la globalizzazione di uno stile di vita

Ma come ha fatto un’antica tradizione hawaiana a conquistare il mondo intero? Dopo la scintilla riaccesa da Duke, la vera esplosione fu innescata dalla tecnologia e dalla cultura pop. Le vecchie tavole di legno erano pesantissime e per pochi. La svolta arrivò negli anni ’50 e ’60, con l’introduzione della schiuma poliuretanica e della fibra di vetro. Le tavole diventarono improvvisamente leggere, performanti e relativamente economiche. Il surf era finalmente alla portata di tutti. Questa rivoluzione tecnica esplose in California, che divenne il nuovo centro del mondo del surf. Non era più solo uno sport, era uno stile di vita, un simbolo di ribellione giovanile, di libertà e di una connessione quasi mistica con la natura. Da lì, non si è più fermato, diffondendosi in ogni angolo del pianeta con un’onda adatta. Oggi, le tavole sono tecnologicamente avanzatissime e i campioni cavalcano onde un tempo considerate impossibili. Eppure, il cuore di questa pratica resta lo stesso.

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